Il calcio, la politica e la propaganda.
Inviato: 14.09.10 - 17:03
Ne parlavamo poche settimane fa quando il Milan comprò Ibrahimovic e Robinho: il rapporto tra calcio e politica, se il presidente in questione è presidente di entrambi i settori. Nel seguito posto un interessante e acuto articolo di Matteo Lunardini, tratto dal sito de "Il Fatto Quotidiano", in cui viene descritto questo importante aspetto del problema del conflitto di interessi in Italia, che sfocia nella propaganda elettorale.
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Ci mancava solo questo. Adesso anche il Milan si mette a remare contro Berlusconi. Bell’ingratitudine, verrebbe da dire, visto gli sforzi profusi dal Cavaliere negli ultimi giorni di calciomercato. Eppure è così. Ibrahimovic e Robinho non bastano a battere il Cesena dei poveri. Anzi, è tutto il Milan a naufragare. Strano, perché nell’ultima settimana pareva che in Italia esistesse una sola squadra. E sui giornali, non solo sportivi, gli aggettivi si sprecavano: Robinho, Pato, Ronaldinho e Ibra? Il quadrato magico che il mondo tremare fa.
D’altronde la cosa era prevedibile. Con le elezioni un giorno imminenti e l’altro no, la chiamata alle armi di tutti gli apparati ideologico-pubblicitari del regime è da resa dei conti. E a nessuno è consentito di fallire. Anche a quelli dormienti, che di solito si svegliano a comando, un po’ come la balera fantozziana quando arrivano i clienti. Così la squadra partito, la cui costosissima funzione da venticinque anni è organica alla propaganda. Solo a luglio aveva fatto sorridere la conferenza stampa di Berlusconi a Milanello, quella con i tifosi fuori che contestavano: allora il Cavaliere aveva glorificato la rosa rossonera (“Ronaldinho è il miglior giocatore di tutti i tempi!”) e sciorinato i virtuosi bilanci della società. E ci è mancato poco che prendesse il belloccio Yepes e lo battesse sul bancone per garantirne l’infrangibilità. Poi durante l’estate il vento politico è cambiato e con esso lo scopo di una squadra di calcio. Con il nemico alle porte spendere il meno possibile non era più virtuoso: meglio essere la regina del mercato.
Una storia già vista. Il calcio è una clava, la testa su cui va a battere sempre quella. Nell’81, quando ancora Berlusconi non aveva comprato il Milan, ma corteggiava non corrisposto l’altra squadra di Milano, un mundialito per nazioni in Uruguay servì a scardinare il monopolio della Rai, trasformando il sistema delle cassette ideato da Galliani in un network nazionale. Per farlo si mosse la P2, prima sulle testate vicine alla loggia e poi in parlamento. Calcio e televisione, insomma, il connubio perfetto. Disse una volta Berlusconi a Marcello Dell’Utri: “Non capisci che se qualcosa non passa in televisione non esiste? Questo vale per i prodotti, i politici, le idee”. E quale prodotto, in Italia, conta più adepti del calcio?
Così venne il Milan, squadra di giocatori belli alti e vincenti (i cameraman di famiglia avevano l’ordine di inquadrare Paolo Maldini da vicino e il piccolo Nanu Galderisi invece no); una squadra partito cui all’occorrenza si demandavano le invettive più stravaganti, anticipando i miti fondativi del berlusconismo (quando, nel 1993, la magistratura indagò sui fondi neri ruotati intorno al trasferimento di Lentini, la curva del Milan espose lo striscione: “Toghe rosse, giù le mani dal Milan”). Mentre nei giorni della discesa in campo nel 1994, la squadra partito, vincendo la Coppa dei campioni, permise a Berlusconi di pronunciare la famosa frase: “Faremo l’Italia come il Milan”. Dopodiché ci furono le campagne acquisti a scadenza, che poi è sempre quella elettorale: la rinviata cessione di Kakà, l’acquisto di Ronaldinho e, quest’estate, quello di Ibrahimovic e Robinho. Perché, con tutto il rispetto, l’Italia non può mica essere come Huntelaar e Borriello.
Non a caso, un anno esatto fa, Galliani chiamò il Milan “la squadra dell’amore”, un eden calcistico dove tutti sono belli e si vogliono bene. Era settembre. Solo tre mesi dopo, Berlusconi avrebbe definito il suo Pdl “il partito dell’amore”. Lo schema, evidentemente, aveva ottenuto qualche effetto e poteva essere replicato. Poi vennero le radiose giornate che avrebbero portato alle elezioni regionali. Detto fatto, la corsa allo scudetto del Milan sarebbe durata fino a quella data. Per poi tornare dormiente.
Per questo la sconfitta di Cesena e la reazione prima di Galliani in tribuna e poi di Berlusconi alla festa di Atreju, è un’anticipazione di quel che accadrà se il berlusconismo perderà le elezioni. L’arbitro – che sia Napolitano che le avrà indette oppure Fini che le avrà provocate – sarà tacciato di essere di sinistra, o peggio di essere comunista (oggi sinonimo di malfattore: da notare che Berlusoni ha detto “arbitri di sinistra”, ma molti mezzi d’informazione hanno riportato “arbitri comunisti”). E se sapevamo che un comunista non poteva fare il magistrato, ora sappiamo che non può nemmeno fare l’arbitro di calcio. Perché chi è di sinistra non è obiettivo per definizione. Ebbene, a quando le leggi razziali che ne precluderanno i pubblici uffici?
Il problema italiano è il conflitto d’interesse ma nessuno lo dice più. Così a farne le spese oggi è il campionato di calcio. Povero Braschi, proprio non vorremmo essere nei suoi panni. Il referente della commisisone arbitri è già stato insultato da Galliani in tribuna a Cesana. La sua colpa non è quella di aver lavorato per il Siena senza permesso dell’Aia nel 2003. Perché per quello fu squalificato. Ma quella di essere stato riabilitato da Guido Rossi ai tempi di calciopoli. E tutti sanno che Guido Rossi è un pericoloso comunista. Dunque, se il Milan sarà sfavorito dagli arbitri, anche Braschi giocoforza sarà comunista. Certo, una volta gli avrebbero dato del “cornuto”. Ma evidentemente i tempi cambiano e con essi gli insulti. Meglio una moglie fedifraga, che una grazia ricevuta da Guido Rossi. Meglio cornuti che di sinistra.
di Matteo Lunardini, http://www.ilfattoquotidiano.it
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Il Milan affonda e Ibra sbaglia un rigore. Anche ‘la squadra dell’amore’ rema contro B.
Anche la squadra non aiuta (come in passato) la campagna elettorale del premier: la chiamata alle armi di tutti gli apparati ideologico-pubblicitari del regime è da resa dei conti. E a nessuno è consentito di fallireCi mancava solo questo. Adesso anche il Milan si mette a remare contro Berlusconi. Bell’ingratitudine, verrebbe da dire, visto gli sforzi profusi dal Cavaliere negli ultimi giorni di calciomercato. Eppure è così. Ibrahimovic e Robinho non bastano a battere il Cesena dei poveri. Anzi, è tutto il Milan a naufragare. Strano, perché nell’ultima settimana pareva che in Italia esistesse una sola squadra. E sui giornali, non solo sportivi, gli aggettivi si sprecavano: Robinho, Pato, Ronaldinho e Ibra? Il quadrato magico che il mondo tremare fa.
D’altronde la cosa era prevedibile. Con le elezioni un giorno imminenti e l’altro no, la chiamata alle armi di tutti gli apparati ideologico-pubblicitari del regime è da resa dei conti. E a nessuno è consentito di fallire. Anche a quelli dormienti, che di solito si svegliano a comando, un po’ come la balera fantozziana quando arrivano i clienti. Così la squadra partito, la cui costosissima funzione da venticinque anni è organica alla propaganda. Solo a luglio aveva fatto sorridere la conferenza stampa di Berlusconi a Milanello, quella con i tifosi fuori che contestavano: allora il Cavaliere aveva glorificato la rosa rossonera (“Ronaldinho è il miglior giocatore di tutti i tempi!”) e sciorinato i virtuosi bilanci della società. E ci è mancato poco che prendesse il belloccio Yepes e lo battesse sul bancone per garantirne l’infrangibilità. Poi durante l’estate il vento politico è cambiato e con esso lo scopo di una squadra di calcio. Con il nemico alle porte spendere il meno possibile non era più virtuoso: meglio essere la regina del mercato.
Una storia già vista. Il calcio è una clava, la testa su cui va a battere sempre quella. Nell’81, quando ancora Berlusconi non aveva comprato il Milan, ma corteggiava non corrisposto l’altra squadra di Milano, un mundialito per nazioni in Uruguay servì a scardinare il monopolio della Rai, trasformando il sistema delle cassette ideato da Galliani in un network nazionale. Per farlo si mosse la P2, prima sulle testate vicine alla loggia e poi in parlamento. Calcio e televisione, insomma, il connubio perfetto. Disse una volta Berlusconi a Marcello Dell’Utri: “Non capisci che se qualcosa non passa in televisione non esiste? Questo vale per i prodotti, i politici, le idee”. E quale prodotto, in Italia, conta più adepti del calcio?
Così venne il Milan, squadra di giocatori belli alti e vincenti (i cameraman di famiglia avevano l’ordine di inquadrare Paolo Maldini da vicino e il piccolo Nanu Galderisi invece no); una squadra partito cui all’occorrenza si demandavano le invettive più stravaganti, anticipando i miti fondativi del berlusconismo (quando, nel 1993, la magistratura indagò sui fondi neri ruotati intorno al trasferimento di Lentini, la curva del Milan espose lo striscione: “Toghe rosse, giù le mani dal Milan”). Mentre nei giorni della discesa in campo nel 1994, la squadra partito, vincendo la Coppa dei campioni, permise a Berlusconi di pronunciare la famosa frase: “Faremo l’Italia come il Milan”. Dopodiché ci furono le campagne acquisti a scadenza, che poi è sempre quella elettorale: la rinviata cessione di Kakà, l’acquisto di Ronaldinho e, quest’estate, quello di Ibrahimovic e Robinho. Perché, con tutto il rispetto, l’Italia non può mica essere come Huntelaar e Borriello.
Non a caso, un anno esatto fa, Galliani chiamò il Milan “la squadra dell’amore”, un eden calcistico dove tutti sono belli e si vogliono bene. Era settembre. Solo tre mesi dopo, Berlusconi avrebbe definito il suo Pdl “il partito dell’amore”. Lo schema, evidentemente, aveva ottenuto qualche effetto e poteva essere replicato. Poi vennero le radiose giornate che avrebbero portato alle elezioni regionali. Detto fatto, la corsa allo scudetto del Milan sarebbe durata fino a quella data. Per poi tornare dormiente.
Per questo la sconfitta di Cesena e la reazione prima di Galliani in tribuna e poi di Berlusconi alla festa di Atreju, è un’anticipazione di quel che accadrà se il berlusconismo perderà le elezioni. L’arbitro – che sia Napolitano che le avrà indette oppure Fini che le avrà provocate – sarà tacciato di essere di sinistra, o peggio di essere comunista (oggi sinonimo di malfattore: da notare che Berlusoni ha detto “arbitri di sinistra”, ma molti mezzi d’informazione hanno riportato “arbitri comunisti”). E se sapevamo che un comunista non poteva fare il magistrato, ora sappiamo che non può nemmeno fare l’arbitro di calcio. Perché chi è di sinistra non è obiettivo per definizione. Ebbene, a quando le leggi razziali che ne precluderanno i pubblici uffici?
Il problema italiano è il conflitto d’interesse ma nessuno lo dice più. Così a farne le spese oggi è il campionato di calcio. Povero Braschi, proprio non vorremmo essere nei suoi panni. Il referente della commisisone arbitri è già stato insultato da Galliani in tribuna a Cesana. La sua colpa non è quella di aver lavorato per il Siena senza permesso dell’Aia nel 2003. Perché per quello fu squalificato. Ma quella di essere stato riabilitato da Guido Rossi ai tempi di calciopoli. E tutti sanno che Guido Rossi è un pericoloso comunista. Dunque, se il Milan sarà sfavorito dagli arbitri, anche Braschi giocoforza sarà comunista. Certo, una volta gli avrebbero dato del “cornuto”. Ma evidentemente i tempi cambiano e con essi gli insulti. Meglio una moglie fedifraga, che una grazia ricevuta da Guido Rossi. Meglio cornuti che di sinistra.
di Matteo Lunardini, http://www.ilfattoquotidiano.it