Ronaldo, il giocatore quasi perfetto
di Enzo Palladini
E adesso sì che bisogna avere paura del buio. Quello che ci sarà dopo di lui, dopo la fine di una carriera esaltante, straordinaria. Con l’addio di Ronaldo sparisce un capitolo fondamentale nella storia del calcio. E’ stato uno degli ultini superuomini che si siano visti negli stadi. Oggi rimane Ibrahimovic, ma è un’altra cosa. Lo svedese utilizza al 50% il fisico e al 50% la tecnica, Ronaldo è stato, fino a quando la forza glielo ha consentito, la massima sublimazione della scienza calcistica.
Nato per giocare a calcio, nato per partire a cento all’ora con un pallone tra i piedi e puntare dritto una porta, una meta. Un gol. Nato per far sognare la gente e per essere un esempio da imitare. O meglio un esempio impossibile da imitare. Perché nessuno come lui ha avuto la capacità di correre con il pallone più veloce di quanto fosse capace di fare in linea retta. Nessuno - se non Maradona prima lui - era in grado di dribblare tutta la squadra avversaria e poi depositare il pallone in rete.
E’ facile scadere nella retorica quando si parla di un giocatore del genere. In 99 casi su 100 i polpastrelli scappano via, tendono a esaltare personaggi che forse non lo meritano, a vendere per oro un ciondolo d’argento. In questo caso è vero il contrario. Si rischia di andare a cercare qualche difetto in un giocatore che dal punto di vista tecnico non ne ha avuti. Si può andare a trovare qualche neo nel resto della sua vita, la poca propensione al sacrificio, la facilità di innamoramento nei confronti delle donne, la gola più da gourmet che da sportivo professionista. Va bene, va bene. Ma il giocatore, quello è stato sopraffino. Ha regalato momenti di poesia, ha conteso a Pelè e Maradona lo scettro di miglior giocatore degli ultimi cinquant’anni. Ha riempito giornali, trasmissioni televisive, ha scomodato capi di stato e di governo. Si è divertito tanto e ha fatto divertire.
Il grande rimpianto è che in Italia si è visto troppo poco. Un anno splendido, il primo da interista, uno scudetto sfiorato e una Coppa Uefa stravinta. Ma poi praticametne è finita lì, causa un Mondale giocato sotto infiltrazioni e sotto stress, ma soprattutto causa infortuni devastanti. Eppure poteva ancora dare, poteva volare in giro per i campi della serie A se non avesse trovato sulla sua strada Hector Cuper. Nel 2002, dopo il famigerato 5 maggio, Moratti aveva promesso a Ronaldo il cambio di allenatore, salvo poi cambiare idea. Altri mesi a contatto con l’hombre vertical, il Fenomeno non li avrebbe potuti trascorrere. Troppo pesante l’aria da respirare, troppo forte l’incompatibilità, come prima di quella partita a Brescia in cui il tecnico argentino chiese a Ronie di fare i movimenti difensivi che faceva Kallon e si sentì rispondere: “Poi vai a dire a Kallon di segnare i gol che segno io”. Non era presunzione, ma consapevolezza nei propri mezzi. Per quello che Ronaldo ha rappresentato dal 1997 al 2002, dovrebbe essere ricordato come un’icona della storia nerazzurra, invece nel cuore della gente deve dividere uno spazio con gente che ha vinto molto meno oppure addirittura non ha vinto nulla, come Karl-Heinz Rummenigge. La colpa che gli viene imputata non è tanto l’aver giocato nel Milan, quanto averlo fatto felice di farlo.
Ha cominciato dal basso, da ragazzino povero che sognava la maglia del Flamengo e invece doveva accontentarsi di giocare nel Sao Cristovao. E’ cresciuto a vista d’occhio in Europa, prima nel Psv Eindhoven e poi nel Barcellona, dove il ragazzino con i dentoni è diventato prima ragazzone, poi uomo, E che uomo. Ha regnato sul calcio mondiale, portandosi a casa due Palloni d’oro e un Mondiale vinto da superprotagonista. Si è divertito in campo e fuori, concedendosi tutto quello che un uomo può sognare. E’ tornato in Brasile come aveva promesso quando se n’era andato tanti anni fa. E adesso ha detto basta. Non farà l’allenatore perché ha semrpe detto che non è il suo mestiere. Farà qualcosa d’altro che c’entri con il calcio, magari l’agente di giocatori. Difficile pensare che uno come lui non si renda conto di avere sotto gli occhi un potenziale fenomeno. In questo caso non c’è da avere paura del buio.
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