Roma, la favola di Marquinho dal calcetto all'Olimpico
ROMA - Pressoché sconosciuto a Roma, un idolo per la tifoseria del Fluminense che in questi giorni non sa se disperarsi per la sua partenza o gioire per il ritorno di Thiago Neves. Un legame, quello con la “torcida tricolor”, che Marquinho riconduce al 6 dicembre del 2009: «Quel minuto 26 della gara contro il Ponte Preta me lo ricorderò per il resto della vita, avendo segnato il gol che ha salvato il Flu dalla retrocessione. Senza quella rete non avremmo vinto il campionato l’anno dopo. Ancora oggi quando cammino per Rio de Janeiro più che ringraziarmi per il titolo del 2010 i tifosi mi abbracciano per quel gol». Classe’86, gaucho doc, Marco Antonio de Mattos Filho non vede l’ora di arrivare a Roma: «Manca poco e realizzerò il mio sogno». Calciatore eclettico, sa ricoprire più ruoli in campo. Caratteristica che in Brasile gli è valsa il soprannome di dodicesimo. Ma guai a ricordarglielo: «Per favore, chiamatemi come volete ma non così. Il dodicesimo in campo è il tifoso e basta. Per quanto mi riguarda se devo giocare, gioco. Se il tecnico mi preferisce un altro, sosterrò il mio compagno pronto per dargli il cambio. Ma non sono un dodicesimo». Si definisce «un ragazzo iperattivo, mi piace molto tenermi in movimento, avere sempre qualcosa da fare. Quando ho un attimo di pausa, però, mi rilasso andando in spiaggia. Ricarico le pile, sono un amante del mare ma mi piace anche stare a casa e vedere un bel film. Sono un tipo molto tranquillo».
Affermarsi non è stato facile: «Ho iniziato facendo un provino con la Juventude a 12 anni – racconta in una intervista tv di qualche mese fa a Lancenet – Mi presero ma la mia famiglia non accettò di trasferirsi o di lasciarmi solo a Caxias do Sul. Tornai quindi a Passo Fundo dove ho giocato a calcetto per un anno, per andare poco dopo all’Internacional. Poi sono tornato a casa, al Gremio, una proposta che non potevo rifiutare. Dalle mie parti, zona interna del Rio Grande do Sul, abbiamo una cultura molto radicata, dove lo spirito di appartenenza alla famiglia è molto forte. Non dimenticherò mai l’immagine dei miei nonni e di mia madre che piangevano quando andai via. E’ stato l’ostacolo più grande che si è trasformato con il tempo in una forte motivazione: non potevo farli soffrire per poi deluderli. Questo mi ha dato la forza anche nei momenti difficili. Non passa un giorno che non ci sentiamo. Sono orgogliosi di me. Appena finisce la partita, mi squilla il cellulare e sono loro che vogliono commentare la gara. E non gli importa nulla se le dico: «Mamma sono stanco, ci sentiamo dopo». Niente, continuano a parlare. Ricordo che quando stavamo vincendo il titolo del Brasileirao mi chiamavano a qualsiasi ora e mi dicevano: «Ma sai cosa vuol dire essere la squadra più forte del Brasile? Rimarrai nella storia». Da tempo sogna il calcio europeo anche se fino alla chiamata della Roma, il suo interesse era stato per lo più per il calcio inglese: «Mi piace molto la Premier. Ho sempre ammirato lo stile di Gerrard, Lampard e Beckham. Come loro, amo concludere spesso da fuori area con il mio sinistro». Marquinho ha un rapporto particolare con la fede: «Mi aiuta in tutto, nel quotidiano, nel relazionarmi con la gente, in campo». Prima delle partite ama ascoltare sempre una canzone di un rapper brasiliano, Mv Bill, che dice di «non abbassare mai la testa. Non importa che accadrà – canta – mantieni alta la testa. Qualsiasi cosa accada, mantieni alta la testa. Ed è quello che ho sempre fatto, sia dopo una sconfitta che nei momenti difficili della mia vita. L’importante è tenere alta la testa». C’è da esser certi che lo farà anche a Roma.
Il Messagero